Le produzioni certificate nell’agricoltura italiana

Le produzioni certificate nell’agricoltura italiana
a Università di Firenze, Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa

Le produzioni di qualità e il Censimento1

Sempre più spesso lo sviluppo delle produzioni di qualità certificata viene individuato come uno degli elementi chiave per consentire al settore agricolo di sfuggire alla crescente concorrenza di prezzo proveniente dai Paesi Terzi e per migliorare la valorizzazione della produzione agroalimentare nazionale. In questo contesto, i prodotti con indicazione geografica e i prodotti ottenuti col metodo dell’agricoltura biologica rappresentano i due casi di più lunga tradizione, e allo stesso tempo più importanti e diffusi nell’agricoltura italiana. Tali prodotti rispondono ad esigenze espresse da segmenti crescenti di consumatori, i quali sono sempre più orientati da una parte alla ricerca di prodotti tipici, espressione di forti legami con il territorio e con le tradizioni alimentari locali, e dall’altra all’attenzione per i processi produttivi rispettosi dell’ambiente ma allo stesso tempo anche della salute dei consumatori, grazie all’eliminazione dei prodotti chimici di sintesi dai processi di produzione e di elaborazione.
In entrambi i casi si tratta di produzioni certificate in base a normative di origine comunitaria. Il Reg. CE 2082/1991 ha infatti introdotto in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea la Denominazione geografica protetta (Dop) e l’Indicazione geografica protetta (Igp), oggi disciplinate dal Reg. CE 510/2006; il Reg. CE 479/2008 e il Decreto legislativo n. 61/2010 hanno esteso la protezione delle Dop e Igp anche ai vini a denominazione geografica, ponendo le basi per un quadro di protezione unitario per tutti i prodotti agroalimentari. L’agricoltura biologica, riconosciuta a livello comunitario nel 1991 con il Reg. CE 2092/91, è attualmente disciplinata dal Reg. CE 834/2007 che detta i principi e le norme generali, e dal Reg. CE 889/2008 che definisce le modalità applicative.
Il riscontro ottenuto sul mercato da queste tipologie di prodotti viene considerato nel complesso positivo, anche se molto diversificato e non privo di zone d’ombra. Nell’ultimo decennio si è assistito a una forte crescita del mercato dei prodotti Dop-Igp e soprattutto dei prodotti dell’agricoltura biologica. Questi ultimi sono ormai definitivamente usciti da una situazione di nicchia, con i conseguenti riflessi positivi (sviluppo dei volumi, consolidamento delle quote, penetrazione di nuovi canali distributivi) ma anche negativi (aumento della concorrenza interna al comparto bio anche dall’estero, contrazione dei margini operativi, allentamento della spinta ideale che aveva caratterizzato le fasi iniziali) (Fonte e Agostino, 2008). Diverso è il caso dei prodotti Dop-Igp dove la situazione è fortemente diversificata tra i numerosi prodotti registrati (521 vini, di cui 403 Dop e 118 Igp, e 239 altri prodotti riconosciuti alla fine del 2011). Accanto ai grandi prodotti, affermati in Italia e all’estero e che da soli rappresentano la grandissima parte del fatturato totale, ve ne sono molti altri di piccole o piccolissime dimensioni che faticano a farsi conoscere al di fuori del proprio territorio di produzione e ad assumere una propria consistenza economica, anche se sovente rivestono un ruolo di grande importanza nelle dinamiche di sviluppo locale (Arfini, Belletti e Marescotti, 2010).
I dati censuari da soli non consentono un inquadramento completo del fenomeno in oggetto, in quanto si limitano a rilevare il numero di aziende, le superfici e i capi iscritti nei registri delle indicazioni geografiche e quelli interessati dall’applicazione del metodo biologico, ma non rilevano ad esempio l’effettivo utilizzo degli stessi nella fase di commercializzazione delle produzioni, che si rivela spesso molto parziale. Anche le comparazioni intercensuarie sono molto difficoltose, sia perché i dati sul biologico relativi al Censimento 2000 sono stati pubblicati da Istat in modo molto parziale, sia perché alcune definizioni sono state modificate tra il 2000 e il 2010.

L’agricoltura biologica

Alla data della rilevazione censuaria le aziende che adottano metodi di produzione biologica sono in Italia circa 44.500, pari al 2,8% delle aziende totali. Gran parte delle aziende utilizzano il metodo biologico per le coltivazioni (43.367 aziende) (Tabella1), mentre un numero minore (8.416 aziende) per gli allevamenti. Il metodo biologico è però relativamente più diffuso nell’allevamento che nelle coltivazioni: le aziende che adottano il metodo bio sono infatti il 3,9% del totale delle aziende con allevamenti, e solo il 2,7% delle aziende con Superfice Agricola Utilizzata (Sau).
La superficie coltivata con metodo biologico (inclusa la Sau in fase di conversione) ammonta a oltre 780 mila ettari, pari al 6,1% della Sau nazionale. La dimensione media delle aziende interessate dal metodo biologico è molto superiore alla media nazionale: 18 ettari contro circa 7,9 ettari.

Tabella 1 - Aziende e relativa superficie coltivata con metodo biologico, anno 2010 


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Relativamente alla distribuzione territoriale, le aziende biologiche sono per oltre il 62% ubicate nelle regioni meridionali e insulari (nell’ordine, soprattutto in Sicilia, Calabria e Puglia) (Tabella 2), che totalizzano anche oltre il 70% della superficie complessiva. Particolarmente significativa è la distribuzione delle superfici per zona altimetrica, che vede un peso del biologico più elevato nelle zone di collina (ove le superfici a bio incidono per il 9,5% sulla Sau totale) e in quelle di montagna che non in quelle di pianura; oltre l’80% della Sau biologica nazionale si trova in collina e in montagna. Sembra dunque prevalere una tendenza alla conversione verso il metodo biologico più consistente nei sistemi produttivi già meno intensivi (Sud e isole, collina e montagna), dove il costo opportunità della disintensificazione dei processi produttivi è più ridotto e dove l'alternativa di reddito ritraibile può risultare più interessante, anche grazie ai contributi derivanti dall’applicazione della politica comunitaria di sviluppo rurale.

Tabella 2 - Superficie coltivata con metodo biologico per zona altimetrica


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

La superficie biologica è destinata per una parte significativa (circa 28%) alla produzione di cereali, seguita da prati permanenti e pascoli con il 22% e dall’olivo con il 17%. Rilevante anche il peso delle coltivazioni foraggere (11%), mentre vite e fruttiferi detengono una quota del 6% circa del totale. L’incidenza relativa della superficie biologica è maggiore nel comparto degli agrumi (18%), dei legumi secchi (17%) e dell’olivo (12%) (Tabella 3).

Tabella 3 - Superficie coltivata con metodo biologico per coltura praticata, e incidenza sulla Sau totale

Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Nel settore zootecnico i capi allevati con metodo biologico (esclusi quelli in conversione) hanno un’incidenza relativa più elevata nei settori dei caprini e degli ovini, ove supera il 9% dei capi totali allevati. L’allevamento bovino con metodo biologico è invece molto diffuso nelle Isole (15,8% dei capi), e in generale nel Centro-sud e nelle Isole il metodo biologico è molto più diffuso che non nell’Italia settentrionale (Tabella 4).

Tabella 4 - Aziende e relativi capi allevati con metodo biologico (in % sui capi complessivi), anno 2010 


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

L’esame dei dati censuari mostra come l’adozione del metodo biologico vada spesso al di là di un fatto meramente tecnico e si inserisca in un progetto più ampio di diversificazione aziendale. Infatti le aziende bio che svolgono attività connesse sono nel complesso oltre 7.700, con una incidenza sulle aziende bio totali pari al 14,4%, quasi 4 volte quella che si registra per l’universo delle aziende agricole. Risultano particolarmente diffusi tra le aziende biologiche l’esercizio dell’agriturismo, la trasformazione dei prodotti aziendali e le attività didattiche (Tabella 5).

Tabella 5 - Aziende biologiche che svolgono attività remunerative connesse e confronto con l’universo delle aziende, anno 2010


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Le indicazioni geografiche

Alla data della rilevazione censuaria le aziende interessate alla produzione di prodotti certificati come Dop e Igp sono risultate quasi 181 mila, pari all’11,2% delle aziende agricole totali censite in Italia. Di queste, le aziende che praticano la coltivazione di prodotti Dop/Igp sono oltre 152 mila, di cui circa 125 mila coinvolte nella produzione di uva per vini a denominazione di origine, mentre le aziende che praticano l’allevamento di prodotti Dop-Igp sono oltre 31 mila.
Le aziende con coltivazioni Dop-Igp sono oltre il 9,4% delle aziende totali, con una punta del 22% nel Nord-est e un minimo del 3,7% nelle Isole. L’incidenza della Sau sottoposta a disciplinare rispetto alla Sau totale è molto più ridotta, pari ad appena l’1,2% a livello nazionale ma con una punta del 5,7% nel Nord-est; se si esclude la vite, la superficie Dop-Igp si riduce del 70% circa, e l’incidenza sulla Sau a livello nazionale scende allo 0,4% (Tabella 6). Dal punto di vista della distribuzione territoriale della superficie Dop-Igp, se si esclude il vino, quattro regioni detengono i due terzi del totale nazionale: prima tra tutte la Toscana con il 23,7% (grazie soprattutto all’olivo), seguita da Trentino Alto Adige con il 17,5% (quasi esclusivamente fruttiferi), Puglia con il 15,0% (principalmente olivo) e Sicilia con il 10,7% (olivo e agrumi). La distribuzione per regione della superficie a vino è invece più equamente ripartita, con un peso maggiore del Veneto (17% del totale nazionale, pari a circa 56 mila ettari), della Toscana e del Piemonte (con il 13% ciascuna).
La gran parte delle superfici investite in coltivazioni certificate Dop-Igp interessano la vite, che detiene oltre 320 mila ettari con una incidenza del 48% sulla Sau totale a vite (Tabella 7). Le produzioni a indicazione geografica hanno una diffusione significativa anche per l’olivo da olio e da mensa (77 mila ettari con una incidenza del 7% circa sul totale) e per la frutta (quasi 40 mila ettari e una incidenza del 9,4% sulla relativa Sau totale). La diffusione della Dop-Igp è significativa anche per la patata e per gli agrumi.

Tabella 6 - Aziende e relativa superficie utilizzata per la produzione di prodotti Dop e Igp, anno 2010 (migliaia di ettari)


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Tabella 7 - Superficie utilizzata per coltivazioni Dop-Igp per coltura praticata, e incidenza sulla Sau totale


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Le produzioni Dop-Igp risultano ancor più diffuse tra le aziende zootecniche, dove pure sono numericamente meno consistenti in termini assoluti rispetto alle coltivazioni. Le circa 31 mila aziende con allevamenti Dop-Igp rappresentano il 14,4% delle aziende in complesso con allevamenti presenti in Italia, ma arrivano al 77% per le aziende con allevamenti di suini, al 40% sia per i bufalini che per gli ovini, e al 22% per i bovini. L’adesione a disciplinari Dop-Igp rappresenta ormai un elemento di fondamentale importanza per il settore zootecnico nazionale sia da carne, sia da latte, anche se le aziende zootecniche Dop-Igp sono fortemente concentrate in tre sole regioni: la Sardegna da sola totalizza il 29% delle aziende, seguita da Lombardia (16%) e da Emilia-Romagna (14%).
La diffusione relativa è però molto differenziata tra le diverse aree territoriali del Paese, in dipendenza della presenza o meno di prodotti Dop-Igp con una tradizione consolidata. L’incidenza dei capi allevati nel rispetto di disciplinari Dop-Igp sui relativi capi totali raggiunge ad esempio punte massime per i bovini e per i suini nell’Italia settentrionale, per gli ovini al Centro, ma soprattutto nelle Isole.
Il ricorso alle indicazioni geografiche appare più difficoltoso per le aziende di minori dimensioni (Tabella 9). Nel caso dei bovini l’incidenza dei capi Dop-Igp è maggiore nelle classi di dimensione intermedie (da 50 a 500 capi), mentre nel caso degli ovini l’incidenza è più elevata per le classi di dimensione maggiori.

Tabella 8 - Aziende zootecniche e relativi capi allevati per la produzione di prodotti Dop e Igp, anno 2010 


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Tabella 9 - Distribuzione dei capi Dop-Igp per classe di ampiezza e confronto con capi totali


Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento 2010

Secondo un recente studio condotto sulle aziende che hanno produzioni certificate Dop e Igp con esclusione del settore vino (Greco, Magliocchi e Consentino, 2012), le aziende Dop/Igp risultano mediamente più grandi dal punto di vista delle superfici disponibili (26,9 ha contro i 7,9 ha della media nazionale) e utilizzano una quantità di giornate di lavoro annue superiore alla media (le giornate di lavoro standardizzate medie annue sono infatti di 487,2 per le aziende Dop/Igp contro la media nazionale di 154,7). Le aziende Dop/Igp sono inoltre gestite mediamente da capi azienda più giovani (Figura 1). L’età media dei capi azienda delle aziende Dop/Igp è infatti di 53,6 anni, contro i 59,1 per le aziende nel complesso. I più giovani sono in Sardegna (48,9 anni) ed i più anziani in Toscana (59,3).
Infine i capi azienda delle aziende Dop/Igp mostrano un livello di istruzione più elevato rispetto alla conduzione delle aziende agricole nel complesso (Figura 2). Il più alto titolo di studio favorisce sia l’utilizzo di strumenti informatici nella gestione dell’azienda che di Internet, nonché il ricorso all’e-commerce (Greco, Magliocchi e Consentino (2012).

Figura 1 – Età del capo azienda per classi di età, aziende Dop/Igp e aziende nel complesso


Fonte: Greco, Magliocchi e Consentino (2012)

Figura 2 – Titolo di studio del capo azienda per tipologia, aziende Dop/Igp e aziende nel complesso


Fonte: Greco, Magliocchi e Consentino (2012)

Considerazioni conclusive

Le cosiddette “produzioni di qualità certificata” rappresentano una componente sempre più importante dell’agricoltura italiana, come testimoniato dai dati censuari riferiti alla produzione biologica e all’impiego delle indicazioni geografiche che ne evidenziano una rilevante diffusione in termini numerici, pur se con differenze anche significative nei diversi comparti e nelle diverse realtà territoriali.
In generale è possibile però affermare che, nonostante questi segnali certamente positivi, le potenzialità di applicazione di tali segni di qualità, al di là della formale adesione, sono sfruttate solo in parte dal settore agricolo e dal sistema agroalimentare italiano. In effetti, accade di frequente che gli agricoltori non trovino conveniente sopportare i costi di certificazione necessari per poter introdurre i propri prodotti sul mercato come Dop-Igp o bio, in considerazione della limitata entità dei benefici attesi. Nel caso del biologico l’incentivo ad utilizzare tale metodo risiede spesso nei pagamenti previsti dall’applicazione delle misure agroambientali piuttosto che dalle attese in termini di benefici di mercato. Nel caso delle indicazioni geografiche l’iscrizione dell’azienda, dei capi o delle superfici agli appositi registri tenuti da ciascuna indicazione geografica spesso, specie per le produzioni poliennali, comporta il sostenimento da parte dell’agricoltore di costi fissi abbastanza limitati, il che spinge all’iscrizione nei Registri della Dop-Igp, per poi valutare di anno in anno l’effettiva convenienza all’impiego commerciale della denominazione, che comporta il sostenimento di costi variabili più significativi (Belletti e Marescotti, 2007).
Di per sé l’adesione al metodo biologico o a una indicazione geografica non è sufficiente all’impresa agricola per poter raggiungere l’obiettivo della differenziazione della produzione e del miglioramento della propria posizione competitiva, né ovviamente consente di risolvere i problemi strutturali e di accesso al mercato ancora così diffusi in ampie componenti del nostro sistema agricolo. Determinante è la modalità con cui la singola impresa che utilizza il metodo bio o l’indicazione geografica riesce a raccordarsi con le fasi a valle della filiera, soprattutto nei casi in cui il prodotto sia oggetto di trasformazione, e i meccanismi con cui gli eventuali benefici ottenuti sul mercato finale vengono distribuiti tra gli attori della filiera stessa. La capacità di organizzazione collettiva nell’ambito delle forme consortili e di altre forme associative rimane dunque un elemento fondamentale per il reale successo delle indicazioni geografiche e dell’agricoltura biologica. Parallelamente, come evidenziato dagli stessi dati censuari, sono sempre più numerose le aziende agricole che cercano di integrare la scelta verso il metodo biologico e le produzioni Dop-Igp nell’ambito di strategie di diversificazione e di avvicinamento al consumatore finale.

Riferimenti bibliografici

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  • Abitabile C., Povellato A. (a cura) (2010), Le strategie per lo sviluppo dell’agricoltura biologica. Risultati degli Stati generali 2009, Inea, Roma

  • Arfini F., Belletti G., Marescotti A. (2010), Prodotti tipici e denominazioni geografiche. Strumenti di tutela e valorizzazione, Edizioni Tellus, Roma [link]

  • Belletti G., Marescotti A. (2007), Costi e benefici delle denominazioni geografiche (Dop e Igp), Agriregionieuropa, Anno 3, n. 8

  • Fonte M., Agostino M. (2008), Principi, valori e standard: il movimento biologico di fronte alle sfide della crescita, Agriregionieuropa, Anno 4, n. 12

  • Greco M., Magliocchi M.G., Consentino F. (2012), Il 6° Censimento generale dell’agricoltura fotografa la struttura delle aziende, relazione presentata al Convegno Istat “Agricoltura di qualità: i numeri di un settore in evoluzione”, Roma, 18.09.2012 [link]

  • Santucci F.M. (2009), I circuiti commerciali dei prodotti biologici, Agriregionieuropa, Anno 5, n. 17

  • 1. Gli autori ringraziano gli anonimi revisori per i commenti forniti. La responsabilità di quanto scritto resta ovviamente degli autori.
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