Health check e la PAC dopo il 2013

Health check e la PAC dopo il 2013
a Università di Napoli "Federico II", Dipartimento di Economia e Politica Agraria
b Università di Torino, Dipartimento di Economia
c Università di Roma Tre, Dipartimento di Economia
d Università di Perugia, Dipartimento di Scienze Economiche-Estimative e degli Alimenti
e Centro per lo Sviluppo Agricolo e Rurale (CeSAR)
f Università di Roma Tre, Dipartimento di Economia
g Università di Macerata, Dipartimento di studi sullo sviluppo economico

Un editoriale di Agriregionieuropa, nel numero di dicembre 2008, sollecitava una riflessione collettiva sulle conclusioni dell’Health check e sulle prospettive della PAC per il dopo-2013 (Sotte, 2008). La necessità di un confronto è particolarmente sentita, tanto che già anche in altre sedi sono stati raccolti utili contributi in argomento (De Filippis, 2009). In questo Forum raccogliamo le reazioni di sei eminenti economisti agrari, tra i massimi esperti in materia, e pubblichiamo di seguito un articolo di presentazione e commento al sondaggio sugli stessi temi, recentemente lanciato tra i lettori di Agriregionieuropa. La notevole diversità di opinioni, da un lato conferma la buona scelta di questa rivista di offrirsi per il confronto, dall’altro suggerisce di sollecitare ulteriori reazioni e commenti che volentieri accoglieremo nei prossimi numeri.

Antonio Cioffi (Università di Napoli "Federico II")

La PAC, con una serie di passaggi avvenuti prevalentemente sotto la spinta degli accordi commerciali internazionali, è mutata profondamente rispetto all’assetto che aveva quindici o venti anni fa. E’ stato un passaggio graduale e non privo di difficoltà, che ha eliminato gran parte delle distorsioni che la caratterizzavano. Tuttavia, non si può negare che essa presenti ancora oggi un insieme di aspetti largamente insoddisfacenti. Nei fatti, nella sua articolazione ci sono varie incongruenze che sono derivate in larga misura dal modo in cui è andata evolvendo. Il percorso seguito ha fatto sì che da una politica di sostegno del prezzo e dei ricavi agricoli, con una protezione alla frontiera modulata in ragione dei differenti obiettivi e necessità che essa cercava di salvaguardare, si sia passati a una politica che, in larga misura, offre un sostegno blandamente condizionato ai redditi agricoli e che, nel secondo pilastro, quello dello sviluppo rurale, stenta a decollare.
Se non ci sono più le distorsioni interne ed esterne indotte dalla garanzia dei prezzi, l’altro aspetto critico della vecchia PAC, connesso alla sua equità distributiva, è ancora oggi un nodo irrisolto. Poiché l’attuale sistema di sostegno ai redditi è il frutto della compensazione data agli agricoltori per la riduzione dei prezzi garantiti, oggi abbiamo ancora alcuni settori produttivi coperti da sostegno e da una forte protezione alla frontiera, altri settori con un sostegno storico ma privi di protezione alla frontiera e altri ancora privi sia di sostegno che di protezione alla frontiera. Inoltre, il forte richiamo a una nuova giustificazione dell’intervento a sostegno dell’agricoltura dell’UE, avviato con il cosiddetto non paper di MacSharry e proseguito con lo Strategy paper del 1995 e Agenda 2000 e, infine, sfociato nella riforma Fischler del 2003, appare oggi fortemente appannato, se non addirittura messo in secondo piano (gli obiettivi della PAC non sono mai stati rivisti).
Le ragioni di questo stato di cose risiedono dalla cosiddetta path dependecy delle politiche, e dagli effetti indotti dalla tarifficazione delle vecchie barriere non tariffarie, che erano anche formidabili strumenti integrati con l’intervento sul mercato interno, poi sostituiti dal sostegno a carico del bilancio. La forte resistenza a una revisione profonda e articolata della PAC deriva anche dagli interessi nazionali e dal fatto che, essendo la PAC il principale capitolo di spesa del bilancio comunitario, essa è anche uno strumento attraverso il quale gli Stati membri possono catturare risorse o riequilibrare il saldo fra i contributi versati al bilancio e le risorse finanziarie destinate al paese. In questo contesto, giocano un ruolo impostante le relazioni e i rapporti di forza tra la Commissione europea da un lato e il Consiglio dei ministri dall’altro, ai quali, per effetto delle recenti riforme istituzionale, si è aggiunto anche il Parlamento europeo.
Se queste sono le condizioni che hanno impedito e impediscono una riforma della PAC che la metta in condizione di rispondere meglio alle esigenze della società, eliminando tutte le distorsioni prodotte dall’originaria politica di sostegno, non c’è dubbio che anche in futuro si produrranno forze che spingeranno verso ulteriori modifiche della PAC.
Allora può avere senso sviluppare un esercizio che provi a ridisegnare anche in modo radicale la PAC, definendone obiettivi e strumenti ex-novo. La finalità di un tale esercizio potrebbe essere quella di produrre un quadro di riferimento chiaro rispetto al quale individuare assetti desiderabili che potrebbero essere perseguiti, sia pure in modo parziale, con i futuri cambiamenti. Riprendendo un espressione usata da Wright in uno studio monografico sulla politica agraria degli Usa, in un certo senso l’esercizio consisterebbe nel riscrivere su un foglio bianco la PAC, come se fosse possibile ripartire da zero (Wright e Gardner, 1995). Il lavoro di Wright si concentrava sugli obiettivi attuali o potenziali della politica che venivano suddivisi in cinque categorie a seconda della loro realizzabilità, appropriatezza, grado di raggiungimento e attualità.
In linea generale, per l’analisi economica marginalista l’intervento pubblico in economia è giustificato solo se esso è finalizzato ad accrescere l’efficienza complessiva del sistema economico. In questa logica le politiche dovrebbero essere indirizzate a correggere i fallimenti del mercato (le cosiddette politiche efficienti). Di rilievo per l’agricoltura sono i fallimenti derivanti da:

  • esternalità, particolarmente quelle connesse all’uso delle risorse naturali;
  • beni pubblici, con l’enfasi che viene posta sulla produzione di nuova conoscenza e informazione;
  • mercati imperfetti, per il trasferimento del rischio;
  • informazione incompleta: legata all’asimmetria
  • informativa e al rischio morale;
  • forme di mercato non concorrenziali.

Va osservato che le misure di politica agraria volte a rimuovere le inefficienze derivanti da situazioni quali quelle descritte sopra oggi rientrano tutte nella cosiddetta scatola verde definita dall’Accordo Gatt sull’agricoltura del 1994. Fallimenti del mercato rientranti nelle cinque tipologie indicate sopra sono numerosi: compito dell’intervento pubblico è in primo luogo individuarli e successivamente disegnare strategie e strumenti operativi idonei alla loro rimozione. Apparentemente, questo approccio potrebbe sembrare rigido e con una forte connotazione liberista, che non tiene conto degli aspetti anche sociali connessi all’intervento pubblico in agricoltura. Nei fatti le cose non stanno esattamente in questa maniera: già oggi, tenuto conto dei vincoli esterni esistenti sulle politiche, buona parte dell’intervento in agricoltura ha prevalentemente una connotazione “efficientista”.
Le politiche per lo sviluppo rurale, il sostegno alla competitività e alla gestione del rischio rientrano in questo ambito e rappresentano una parte rilevante dell’intervento in agricoltura a livello comunitario o nazionale. Il vero nodo è rappresentato dal sostegno disaccoppiato, che nei fatti, oltre a non essere classificabile nell’ambito prima definito, mantiene una connotazione di scarsa equità distributiva, ed è difficilmente giustificabile in termini compensativi, tanto più che la condizionalità si è rivelata poco efficace.
Dunque, potrebbe essere quanto mai importante ridefinire gli obiettivi che una politica agricola, alimentare e ambientale dell’UE dovrebbe avere. Ancora oggi gli obiettivi sono quelli definiti dal Trattato di Roma del 1957 successivamente rivisti, sia pure in una forma meno ufficiale, in vari documenti con l’enfasi che si sposta da un aspetto all’altro a seconda delle circostanze. A partire dalla riformulazione degli obiettivi andrebbero individuate successivamente le politiche di intervento. Rispetto a ciò va tenuto presente che il disegno delle politiche può assumere forme differenti che possono implicare, da un lato, livelli di costo per l’intervento differenziati, dall’altro, una capacità di perseguire gli obiettivi anch’essa diversificata. Senza considerare il ruolo svolto dai vari portatori di interesse rispetto all’intervento stesso.
Si può facilmente intuire la complessità del problema di scelta che la politica ha di fronte, ma ritengo che il mondo della ricerca debba interrogarsi e cimentarsi su tali questioni, per dare un contributo utile verso futuri ulteriori cambiamenti.

Alessandro Corsi (Università di Torino)

L’invito di Franco Sotte alla discussione sul futuro della PAC è quanto mai opportuno, perché –contrariamente all’impressione di qualcuno dopo la conclusione dell’Health check - le prospettive della PAC a lungo termine non sono affatto chiare.
Il mio intervento riguarderà soprattutto il problema della legittimazione della PAC. Qualsiasi politica ha bisogno di obiettivi che la legittimino agli occhi dell’opinione pubblica; si può – e si deve - poi discutere se gli strumenti utilizzati sono adatti agli obiettivi, ma la definizione degli obiettivi deve venire prima. La crisi della PAC è anche, e forse soprattutto, un problema di poca chiarezza sui suoi obiettivi agli occhi dell’opinione pubblica e, conseguentemente, di scarsa legittimazione. Non è un problema recente, ma si trascina da più di vent’anni, da quando l’obiettivo di assicurare approvvigionamenti alimentari è stato ampiamente raggiunto. Alcune risposte che l’Unione Europea ha finora fornito sono state chiare ed efficaci (l'obiettivo di riportare l’agricoltura a rispondere agli stimoli di mercato, che si può dire raggiunto), altre (l'obiettivo della multifunzionalità e del “modello europeo di agricoltura”) poco incisive, per non dire piuttosto vaghe. Vorrei quindi passare in rivista alcune idee che sono circolate ultimamente sulle possibili motivazioni della PAC, per discuterne l’efficacia in termini di legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica.

La PAC come politica sociale?

Quello della PAC come politica sociale, più che una proposta precisa, è un discorso che continua a circolare nel mondo agricolo e che viene periodicamente riproposto come giustificazione del sostegno al settore, sulla base di motivazioni (piuttosto vaghe) sulla debolezza strutturale del settore e quindi sulla necessità di difenderlo. Ora, una politica sociale è essenzialmente una politica di redistribuzione del reddito, dalle fasce più ricche a quelle meno abbienti. All’interno dell’agricoltura esistono, come in tutti i settori, redditi bassi e redditi alti: non c’è ragione per privilegiarla come settore nel suo insieme; ed è molto discutibile usare una politica settoriale (quella agricola) per raggiungere scopi più generali (sociali).
Oltretutto, occorre considerare che una impostazione di questo genere implica il capovolgimento dell’impianto tradizionale della PAC ed implica soprattutto l’abolizione del Pua nelle forme attuali. La distribuzione attuale degli aiuti diretti è fortemente squilibrata (il 20% dei percettori -che non sono tutti gli agricoltori- ottiene l’80% degli importi); si tratta di una eredità della vecchia PAC, in quanto il Pua su base storica deriva dalla trasformazione degli aiuti ad ettaro o a capo, a loro volta derivati dalla politica dei prezzi minimi; questa era una politica che prelevava dai consumatori meno abbienti e dai contribuenti per ridistribuire in misura maggiore agli agricoltori più grandi e quindi più ricchi. È allora evidente che una distribuzione così squilibrata non si può presentare come politica sociale, ed è difficilmente difendibile in termini di equità.

La PAC come garanzia del “valore di esistenza” o del “valore di opzione” dell’agricoltura?

Anche questa è una idea che circola nel mondo agricolo, ed è una impostazione che cerca di garantire una legittimità al sostegno dell’agricoltura e, soprattutto, al Pua nella sua forma regionalizzata. A me pare che per avere forza, dovrebbe essere specificata e chiarita meglio. In economia ambientale, per valore di esistenza si intende la disponibilità a pagare per beni ambientali a prescindere dal loro uso presente e futuro; e non mi sembra questo il caso dell’agricoltura. Per valore di opzione si intende invece la disponibilità a pagare per garantire la conservazione di un bene ambientale in vista di un futuro utilizzo.
Quest’ultima accezione -che mi sembra più appropriata- si potrebbe riferire, per quanto riguarda l’agricoltura, alla sicurezza dell’approvvigionamento alimentare: in altre parole, i contribuenti potrebbero essere disposti a pagare per garantirsi la possibilità che in futuro -magari in presenza di una crisi alimentare- sia possibile ricorrere alla produzione interna. Se questo è il senso che si vuole dare all’impostazione, il Pua non è affatto lo strumento più adatto, neppure sotto la forma regionalizzata.
Una impostazione come quella indicata richiederebbe infatti o la costituzione di scorte alimentari, o il mantenimento in uno stato di vitalità economica di fasce di agricoltura che non sopravvivrebbero alle attuali condizioni di mercato ma che potrebbero essere utili in caso appunto di crisi alimentare; si dovrebbe allora trattare di una politica fortemente mirata a settori specifici dell’agricoltura. Vale la pena ancora di notare che il Pua generalizzato (regionalizzato) che talvolta viene indicato come strumento per raggiungere lo scopo indicato, non lo è affatto, neppure in forma inefficiente (di per sé, non sarebbe infatti necessario, per lo scopo precauzionale indicato, sovvenzionare anche gli agricoltori che resterebbero comunque sul mercato perché competitivi): un sussidio legato alla terra (e non a comportamenti o azioni) finisce inevitabilmente per essere assorbito dalla rendita.
Dal punto di vista di politica sociale questo significa che prima o poi questo aiuto si tradurrebbe in un trasferimento di reddito ai proprietari fondiari, una politica quindi nuovamente regressiva. Ma, soprattutto, un pagamento regionalizzato ad ettaro, non raggiungendo l’obiettivo di trasferimento di reddito agli agricoltori, rischia di svuotare anche l’obiettivo di mantenimento dell’agricoltura.

La PAC come produzione di esternalità

Rimane, come giustificazione della politica agraria, la motivazione delle esternalità positive prodotte dall’agricoltura. Questa è una motivazione veramente forte, sia che riguardi gli aspetti di protezione del territorio, sia lo sviluppo rurale in senso più generale, sia gli aspetti ambientali. E’ infatti chiaro che un parte del dissesto idrogeologico potrebbe essere utilmente prevenuta da pratiche agricole appropriate; il presidio del territorio, evitando lo spopolamento attraverso lo sviluppo rurale, è un obiettivo generalmente condiviso dall’opinione pubblica. Diversi studi mostrano che le persone manifestano una disponibilità a pagare, ad esempio, per il paesaggio agrario.
Se quindi la motivazione per la politica agraria fosse quella che l’agricoltura produce effetti utili per la società nel suo complesso, potrebbe facilmente avere un sostegno da parte dell’opinione pubblica. Questa era poi la base per la parola d’ordine della multifunzionalità; ma occorrerebbe riflettere sul perché questa parola d’ordine non sia uscita dallo stretto ambito degli addetti ai lavori dell’agricoltura, anche fra i quali, peraltro, è sempre stata oggetto di confusione. La confusione a mio parere deriva dal fatto che, sotto lo stesso termine, erano comprese da un lato la produzione di esternalità in senso proprio (cioè benefici per la collettività non remunerati dal mercato), dall’altra processi di differenziazione dell’attività (agriturismo, artigianato, ecc.) che di per sé possono trovare una remunerazione nel mercato stesso.
La produzione di beni utili alla collettività e non pagati dal mercato (compreso il motivo prudenziale rispetto a possibili crisi alimentari future) è quindi una motivazione molto forte, che legittima pienamente una politica agraria, sia dal punto di vista dell’opinione pubblica sia -per quanto questo possa contare- agli occhi degli economisti, che in un’impostazione di questo tipo vedono un miglioramento del benessere collettivo. Perché questa politica sia credibile agli occhi dell’opinione pubblica (e degli economisti), occorre però che gli aiuti siano davvero legati alle esternalità effettivamente prodotte; il che significa che tendenzialmente gli aiuti devono essere discriminanti rispetto a queste funzioni. Ad esempio, l’agricoltura nelle aree di montagna probabilmente può produrre maggiori esternalità che nelle zone di pianura, sia perché in generale ha minore impatto ambientale, sia perché può svolgere un maggior ruolo nella difesa idrogeologica; ne conseguirebbe che i pagamenti dovrebbero essere maggiori in montagna che in pianura, contrariamente a quanto accade a tutt’oggi.
Idealmente, i pagamenti dovrebbero compensare le esternalità prodotte. Non è ovviamente pensabile pretendere di valutare il contributo in esternalità della singola azienda, ma un’impostazione coerente di questo genere richiederebbe per lo meno due cose: a) un tentativo di differenziare i contributi in base alla produzione potenziale di esternalità positive, e quindi aiuti differenziati almeno a seconda delle zone e dell’indirizzo produttivo; b) un legame del sussidio con i comportamenti dell’agricoltore, ad esempio in base alle tecniche impiegate.
Si tratterebbe quindi, al contrario di quanto deciso nell’Health check, di un rafforzamento dell’eco-condizionalità, che peraltro andrebbe vista non più come requisito per accedere al sussidio, ma in un’ottica contrattuale: l’operatore pubblico paga l’agricoltore se produce qualche cosa di utile alla collettività. Questo permetterebbe di evitare il rischio che gli aiuti siano assorbiti dalla rendita: se gli aiuti sono legati ai comportamenti degli agricoltori, e non ad un determinato status, la rendita infatti non può appropriarsene.

Fabrizio De Filippis (Università Roma Tre)

Rispondo volentieri alle provocazioni di Franco Sotte, sia perché mi sento in parte chiamato in causa, sia perché sull’argomento ho appena scritto un contributo di valutazione dell’Health check e di riflessione sul futuro della PAC a cui farò qui ampio riferimento (De Filippis, 2009). Inizio dai due principali obiettivi, più o meno dichiarati, dell’Health check e richiamati in questi termini anche da Franco Sotte (2008):

  • completare la riforma del 2003, consolidando i suoi elementi più qualificanti (primo fra tutti, il disaccoppiamento totale del sostegno) come punti di non ritorno;
  • preparare la PAC alla verifica di bilancio e al dibattito sulle prospettive finanziarie dopo il 2013.

Sul primo punto, la missione dell’Health check mi sembra pienamente compiuta: l’abbandono delle misure di mercato più distorsive; la conferma del disaccoppiamento totale; la riaffermazione della modulazione; il tentativo di ampliare e razionalizzare il sistema dei pagamenti speciali previsto dall’Art. 68, per qualificare in senso selettivo una parte della spesa del primo pilastro; la spinta verso la regionalizzazione, che comunque non sarebbe stato possibile imporre obbligatoriamente: tutto ciò va coerentemente nella direzione di completare in modo adeguato la riforma del 2003, evitando ogni tentazione di fare marcia indietro.
Si tratta di risultati importanti, che non erano per nulla scontati, e che anzi a me sembrano ben al di là di quanto si potesse realisticamente attendere, sotto presidenza francese, da quella che – a differenza di quanto avvenne nel 2003 – davvero non voleva e non poteva essere nulla di più di una verifica di metà percorso. Su questo fronte, lo stesso Franco Sotte, che certo è tra i più convinti sostenitori della necessità di accelerare il processo di riforma della PAC, mi pare dia un giudizio complessivamente positivo. Naturalmente è sempre possibile dire che si sarebbe potuto fare di più, e in genere – in una sorta di inconsapevole quanto collaudato gioco delle parti – è esattamente questo che gli economisti dicono quando commentano le decisioni dei policy maker. Tuttavia, succede pure che talvolta i policy maker, magari per caso, prendano decisioni più sagge di quelle che gli economisti vorrebbero, e della cui saggezza ci si rende conto a posteriori: un esempio molto pertinente in relazione al dibattito sulla PAC riguarda i fondi da destinare alle politiche di sviluppo rurale, per il cui drastico aumento la maggioranza degli economisti si è sempre molto spesa in modo quasi pregiudiziale: sia ai tempi della riforma Fischler, quando si discuteva della percentuale di risorse da spostare dal primo al secondo pilastro tramite la modulazione; sia in occasione del negoziato sulle prospettive finanziarie 2007-2013; sia, più recentemente, ancora in relazione alla percentuale di “nuova modulazione” da inglobare nell’Health check. In tutti i casi le decisioni su questo fronte, sempre inferiori alle attese, hanno fatto storcere il naso a molti economisti: come se si fosse persa l’occasione di finanziare una serie di buone politiche, pronte all’appello e sperimentate, alle quali mancavano solo le risorse per decollare. Sappiamo bene, invece, che non è così; conosciamo le enormi difficoltà di spendere – e soprattutto di spendere bene – le risorse finanziarie tutt’altro che trascurabili messe a disposizione dei Psr, per cui non possiamo essere pregiudizialmente sicuri che aumentarle il più possibile sarebbe comunque un fatto positivo: in astratto è giusto rivendicare il passaggio di risorse da politiche indiscriminate e rivolte al passato, quali quelle del primo pilastro, a misure potenzialmente più selettive, come quelle del secondo pilastro; ma dovremmo anche chiarirci e chiarire che le politiche potenzialmente più selettive sono anche le più difficili da applicare in modo efficiente ed efficace, anche perché hanno bisogno di crescere in misura graduale, per dare il tempo alla platea di beneficiari di metabolizzarle ed alle amministrazioni di gestirle bene. Anche questo è un aspetto della path dependency ricordata da Sotte: se è illusorio pensare di cancellare con un tratto di penna le vecchie politiche, specie quelle più distorsive, per la cui difesa si mobilitano interessi potenti, è altrettanto illusorio pensare che, per attivare le nuove politiche, specie quelle più virtuose e selettive, bastino soldi e volontà di farlo. E in ogni caso è necessario prestare massima attenzione a gestire bene quello che c’è, che per definizione è sempre una transizione tra il vecchio che resiste e il nuovo che ha bisogno di tempo per affermarsi.
Invece sul secondo punto – preparare la PAC alla verifica di bilancio e al dibattito sulle prospettive finanziarie dopo il 2013 – forse l’Health check poteva davvero fare di più, iniziando a discutere le implicazioni di lungo periodo delle scelte effettuate. Infatti, proprio la conferma “senza se e senza ma” del disaccoppiamento totale, che rimane il principale punto di forza dell’Health check, potrebbe in prospettiva rivelarsi un elemento di vulnerabilità della PAC, perché ancora una volta è rimasta nell’ombra la questione della motivazione a lungo termine dei pagamenti agli agricoltori, questione tanto meno eludibile quanto più i pagamenti sono disaccoppiati. Come ho scritto nel contributo a cui mi sto qui riferendo (De Filippis, 2009), due sono le motivazioni dei pagamenti agli agricoltori tradizionalmente tirate in ballo nel dibattito sulla PAC: la compensazione per beni e servizi pubblici e la condizionalità. Ma nel lungo periodo sono entrambe motivazioni deboli. La prima, infatti, non giustifica generici pagamenti disaccoppiati, poiché la compensazione per la produzione di beni e servizi pubblici legati all’attività agricola non può che essere selettiva e mirata (e dunque, semmai, affidata anche a misure accoppiate). La seconda motivazione è controversa ed è comunque in parte contraddetta da quanto è accaduto finora: la condizionalità non è stata certo uno degli elementi di maggior successo della nuova PAC e lo stesso Health check, nel tentare legittimamente di semplificarla, corre il rischio di depotenziarla ulteriormente.
Si può allora provare a riflettere su una motivazione antica ma oggi rivisitabile, in un contesto di disaccoppiamento e di maggiore orientamento al mercato: la necessità di compensare quello che il vecchio paradigma di politica agraria definiva lo “squilibrio strutturale” a danno dell’agricoltura nei confronti dei settori a monte e a valle (De Benedictis, De Filippis, 1998); più in generale, per un’area del mondo quale l’Unione europea che tutto sommato se lo può permettere, la volontà di assicurare il presupposto per l’esistenza, nel lungo periodo, di un’agricoltura capace di produrre beni privati in risposta ai segnali del mercato e beni e servizi pubblici in risposta all’intervento dello Stato.
Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi anni ai mercati agricoli: nel 2007-08 i prezzi sono letteralmente esplosi, nel 2008-09 sono crollati, non è escluso che siano destinati a scendere ancora nel prossimo futuro, per poi risalire di nuovo tra qualche anno, magari in coincidenza con la fase decisiva del negoziato sul bilancio dell’Unione europea. L’unica certezza è che i prezzi agricoli saranno in futuro molto più variabili rispetto al passato, specie per gli agricoltori europei, non più al riparo dei vecchi meccanismi di sostegno e protezione che per mezzo secolo hanno assicurato loro stabilità, sia pure a costo di pesanti distorsioni, inefficienze ed iniquità. Con un ragionamento del tutto provvisorio e tutto da verificare nelle sue implicazioni, in questo quadro di maggiore incertezza, uno “zoccolo duro” di sostegno disaccoppiato, certo sensibilmente ridimensionato rispetto agli attuali livelli, tendenzialmente uguale per aree geografiche omogenee, ulteriormente ridotto a favore del secondo pilastro con la modulazione e a favore di misure selettive con i pagamenti supplementari dell’Art. 68, potrebbe avere senso. Esso, infatti, servirebbe a pagare, nel lungo periodo, quello che ho provocatoriamente provato a definire il “valore di esistenza” dell’agricoltura, e a mettere in condizione gli imprenditori agricoli, nel breve periodo, di rispondere al meglio ai mutevoli segnali del mercato (De Filippis, 2009).
Nel dire ciò mi rendo conto di non andare oltre una provocazione vaga e imprecisa, che a molti colleghi apparirà assimilabile ad una posizione vetero-ruralista di tipo ideologico; credo anche, tuttavia, che forse ancora più vago e ideologico sia riproporre la solita ricetta vetero-liberista, secondo cui basta affidarsi al mercato e rimuovere ogni distorsione indotta dall’intervento pubblico per dormire sonni tranquilli. Sappiamo che non è così: l’agricoltura è un settore molto complesso, caratterizzato da forte carica inerziale, e le politiche che si rivolgono ad essa ne devono tenerne conto, specie quando si trovano ad una svolta, come accade oggi alla PAC. L’obiettivo, dunque, non è certo quello difendere a tutti i costi il sistema di pagamenti diretti ereditato dal passato, ma ridefinirne obiettivi e motivazioni guardando al futuro, anche pensando a cosa accadrebbe in sua assenza e alla impossibilità di riattivarlo dopo averlo smantellato.
La riforma Fischler del 2003 fu a suo tempo criticata da non pochi economisti, ai quali non sembrò abbastanza coraggiosa: oggi, a posteriori, la sua fortissima carica innovativa appare in tutta evidenza, tanto che un economista non certo sospetto di vetero-ruralismo, quale Johan Swinnen, l’ha recentemente riletta in termini di “tempesta perfetta”, ossia come evento talmente dirompente da risultare spiegabile solo da un insieme di circostanze irripetibili (Swinnen, 2008). Ma a prescindere dalle circostanze che l’hanno resa possibile, certamente la riforma Fischler ha attivato, in questi anni, un laboratorio politico molto interessante, specie in riferimento alla nascita e alla gestione del principale strumento che essa ha generato, ossia il pagamento unico aziendale disaccoppiato: proprio per questo, prima di affrettarci a invocarne la rottamazione come strumento non conforme ai dettami della teoria economica, proviamo a chiederci se esso – ovviamente ridimensionato e profondamente rivisitato – non possa essere ancora utile per la PAC del futuro.

Angelo Frascarelli (Università di Perugia)

Il contributo di Franco Sotte sulla PAC dopo il 2013, appena concluso l’Health check, ha un grande merito: quello di sollecitare la riflessione sulle priorità dell’agricoltura europea e sul ruolo della politica agricola.
Sotte condanna la “separatezza dell’agricoltura” che produce “isolamento, mina le alleanze, fa saltare appuntamenti cruciali per il futuro del settore” e invoca un approccio meno settoriale delle rappresentanze agricole ed una maggiore apertura del mondo agricolo al tavolo della Revisione del bilancio dell’Ue.
Sotte ha ragione a criticare le lobby agricole perché si sono sempre schierate alla difesa dello status quo ovvero del vecchio modello della PAC, basato sul protezionismo e sulla garanzia dei mercati e del reddito. Questo atteggiamento è molto diffuso nel mondo agricolo, se consideriamo che tutte le riforme della PAC - seppure quelle oggi valutate positivamente come il disaccoppiamento – hanno incontrato l’opposizione dei sindacati nazionali, salvo qualche eccezione illuminata, e della loro organizzazione europea (Copa). Con questo atteggiamento, i difensori (o meglio, i presunti difensori) della PAC rischiano di essere i più potenti alleati del suo smantellamento perché, difendendo un modello di PAC indifendibile, la mettono a rischio di sopravvivenza politica.
Sin qui Sotte ha ragione, ma oltre questa critica – ampiamente condivisa – ai rischi di “separatezza dell’agricoltura”, non si va oltre e, soprattutto, non si capisce quali strumenti di politica agricola siano auspicati, ad eccezione del refrain del rafforzamento del secondo pilastro.
Le argomentazioni di Sotte e le sue conclusioni sono intrise di soluzioni preconfezionate a favore della politica di sviluppo rurale, che non favoriscono un dibattito scevro da condizionamenti. Sotte ribadisce una scontata e arcinota critica al primo pilastro della PAC e il rammarico per il mancato potenziamento del secondo pilastro, nonché l’incapacità dell’Health check di preparare la PAC al dibattito sulle prospettive finanziarie dopo il 2013.
Ancora Sotte auspica il “rafforzamento del secondo pilastro della PAC a ritmi ben più spediti”, ma dovrebbe rispondere almeno ad una domanda: dove sono i risultati della politica di sviluppo rurale? Oggi l’impatto dei finanziamenti del secondo pilastro è molto più deludente di quello del primo pilastro.
La politica di sviluppo rurale non ha dimostrato di essere uno strumento efficiente di politica agraria e anche la sua efficacia è del tutto discutibile. Mi spiego meglio. Il sostegno del secondo pilastro, dall’insediamento dei giovani agricoltori agli incentivi alla formazione, dagli aiuti agli investimenti alle misure forestali alle indennità compensative e ai pagamenti agroambientali, non è esente dal generare situazioni di rendita e non sempre ha favorito il raggiungimento di migliori livelli di competitività. Basti pensare che gli aiuti agli investimenti hanno favorito l’aumento del capitale agrario, in particolare di macchine agricole, che hanno peggiorato le condizioni di competitività, oppure hanno accresciuto le strutture agrarie, ad esempio la realizzazione di nuove cantine nel settore vitivinicolo, creando un sovradimensionamento che oggi è un vero problema per il futuro del settore. Anche gli aiuti all’agricoltura biologica non sono stati esenti dal creare situazioni di rendita fondiaria, anche più distorsive del primo pilastro. Come non ricordare che – nella regione Marche, dove lavora Sotte – si è diffusa la coltivazione del coriandolo biologico, al solo scopo di accaparrare i sussidi del secondo pilastro, visto che l’Amministrazione regionale aveva previsto alti pagamenti agroambientali ad ettaro per questa strana coltura. Come non ricordare che l’insediamento di molti giovani agricoltori non è andato oltre il sesto anno, limite minimo per lucrare il relativo premio. Come non ricordare che molte misure forestali sono state appannaggio delle Comunità Montane, al solo scopo di pagare gli operai forestali, con scarsi effetti dal punto di vista ambientale. Ci si domanda, quindi, perché si critica aspramente il primo pilastro fin nei minimi dettagli, mentre si assolve totalmente il secondo pilastro? Non può essere questo il punto d’inizio per un dibattito sul futuro della PAC, che deve invece partire dalla risposta ad alcune domande decisive per affrontare l’argomento: quali sono le motivazioni che giustificano la politica agricola? quali sono gli strumenti più efficaci ed efficienti?
Nei testi universitari di politica agraria, si possono leggere le motivazioni che hanno sempre giustificato l’intervento pubblico nel mercato agricolo e nella stabilizzazione dei redditi degli agricoltori:

  • la bassa elasticità dell’offerta nel breve periodo e la conseguente incapacità di programmare l’offerta in funzione della domanda, che genera frequenti crisi di mercato;
  • la struttura atomistica dell’offerta agricola e il conseguente sfruttamento oligopsonistico da parte degli altri anelli della filiera;
  • la rigidità della domanda e la sostanziale stabilità delle utilizzazioni dei prodotti dovuta alla saturazione dei bisogni che essi soddisfano (un consumatore può mangiare una quantità massima di cibo giornaliera, e non più di questa, per limiti di natura biologica);
  • la stagionalità dei flussi di produzione e il collegamento, sempre condizionante e talora imprescindibile, tra la possibilità di coltivazione di alcune specie e l’ambiente pedoclimatico.

Sono venute meno queste motivazioni? Sicuramente no, perché specialmente in un mercato in forte evoluzione questi problemi si confermano e queste specificità dell’agricoltura rimangono.
Queste motivazioni sono ben comprensibili alla collettività e giustificano una dotazione importante di risorse finanziarie per la politica agricola. Qualora il bilancio dell’Ue non dovesse far fronte alle necessità con una buona dotazione finanziaria per la politica agricola, sono certo che sarebbero potenziate le dotazioni nazionali. La politica agraria è indispensabile, per cui la PAC rimarrà importante anche nel futuro e, se non ci fosse una PAC, ci sarebbero tante politiche agricole nazionali. Se la spesa per la PAC è ampiamente giustificata, il dibattito si sposta inevitabilmente sugli strumenti di politica agraria. Gli studiosi di politica agraria ci insegnano che esistono una pluralità di strumenti, dagli interventi sul commercio estero (dazi, contingenti, sussidi all’esportazione, tasse all’esportazione) agli interventi di stabilizzazione dei prezzi (prezzo minimo garantito, deficiency payment, pagamenti anticiclici), dalle misure per la gestione degli stock alle misure di aggiustamento della produzione (quote, set aside), dagli aiuti forfetari agli interventi sulla filiera (marketing board, organizzazioni dei produttori), dalle misure di sviluppo rurale agli incentivi per la ricerca, l’assistenza tecnica e l’innovazione.
Quali strumenti sono più efficaci e più efficienti nell’attuale scenario politico-economico?
Dall’inizio della PAC fino agli anni ’90, l’Ue ha privilegiato gli strumenti della politica dei mercati; infatti gli interventi sul commercio estero e sulla stabilizzazione dei mercati assorbivano in quegli anni il 90% delle risorse finanziarie della PAC. Con la riforma MacSharry sono stati introdotti i pagamenti diretti accoppiati, con Agenda 2000 è nata la politica di sviluppo rurale come il secondo pilastro della PAC, con la riforma Fischler è stato introdotto il disaccoppiamento dei pagamenti diretti e rafforzato lo sviluppo rurale, con l’Health check è stato completato il disaccoppiamento, è stata lanciata la forfetizzazione (o regionalizzazione) dei pagamenti diretti ed è stato ulteriormente potenziato il secondo pilastro della PAC.
Oggi le risorse della PAC sono destinate per il 74% ai pagamenti diretti, per il 6% agli interventi di mercato e per il 20% alla politica di sviluppo rurale (le risorse di quest’ultima politica raddoppiano a livello nazionale per effetto del cofinanziamento).
Questi strumenti sono adeguati in termini di efficienza ed efficacia? Il Pua assegnato con il criterio “storico”, fortemente legato alle logiche del passato, attrae molteplici critiche, ma nel lungo periodo, un pagamento disaccoppiato regionalizzato con importi anche inferiori rispetto a quelli attuali, a seguito di una modulazione più spinta, è ampiamente giustificato, per due ragioni.
In primo luogo, è un corrispettivo per la condizionalità, in particolare per il mantenimento delle Buone condizioni agronomiche ed ambientali dei terreni (Bcaa). Il Pua regionalizzato garantirebbe un livello minimo di presidio di tutto il territorio rurale dell’Unione Europea. Tutta la superficie agricola europea sarebbe coltivata e/o mantenuta in buone condizioni agronomiche, a vantaggio del paesaggio e dell’equilibrio idrogeologico, a tutela dall’erosione del suolo e della biodiversità. In altre parole si avrebbero una serie di effetti positivi e desiderabili per la collettività.
Il sostegno disaccoppiato e omogeneo può assumere una rilevanza diversa in territori diversi: nelle aree marginali il Pua si giustifica maggiormente per il mantenimento dei terreni a rischio di abbandono, nelle regioni più fertili per assicurare un’agricoltura meno impattante sull’ambiente. In entrambi i casi, il sostegno favorirebbe la produzione agricola e dunque, in una situazione di aumento della domanda mondiale, l’approvvigionamento di derrate alimentari a prezzi ragionevoli per i consumatori: anche questo è un effetto desiderabile per la collettività.
Per raggiungere questi risultati, qualunque altra politica sarebbe più costosa. Quale altro strumento di politica agraria garantirebbe gli stessi risultati in termini di efficacia ed efficienza?
Oltretutto non bisogna dimenticare che la condizionalità non è un corpus di norme rigido e immodificabile: essa può essere rafforzata e plasmata nel tempo per raggiungere nuove finalità, per affrontare nuove emergenze ambientali (ad esempio, la prevenzione degli incendi) o per rispondere a nuove aspettative dei cittadini europei (Frascarelli, 2007).
Il Pua regionalizzato non risponde solamente agli obiettivi ambientali e sociali, ma assolve anche la funzione di sostegno al reddito, che è fondamentale per il mantenimento dell’economia agricola.
Una tale politica non è, tuttavia, in grado di tener conto delle specificità e delle esigenze locali, per cui dovrà essere completata territorialmente con gli interventi del secondo pilastro, tali da indurre o premiare comportamenti specifici, mirati a soddisfare i fabbisogni territoriali con misure selettive, nella logica della sussidiarietà. Sarà quindi necessario accompagnare il sostegno disaccoppiato, con una politica di sviluppo rurale potenziata con maggiori risorse, ma anche più efficace attraverso strumenti meno farraginosi.
In sostanza, il mio contributo vuole dimostrare che l’attuale PAC è difendibile nel lungo periodo, anche dopo il 2013. Tuttavia c’è da tener presente una variante. L’attuale crisi economica condizionerà fortemente l’agricoltura e porterà ad una forte crisi dei prezzi, come dimostra la teoria economica sulla situazione dell’agricoltura nei casi di recessione economica. Pertanto non è escluso che si debba ritornare a qualche strumento della vecchia politica dei mercati, come la stabilizzazione dei prezzi.
La PAC deve rispondere continuamente alle esigenze delle mutevoli condizioni economiche e sociali e gli strumenti della politica agricola vanno valutati di volta in volta in funzione della loro efficienza ed efficacia.

Luca Salvatici (Università del Molise)

Raccolgo volentieri la sollecitazione di Agriregionieuropa a prendere spunto dalla conclusione dell’Health check per una riflessione sulla PAC dopo il 2013 in quanto l’articolo di Franco Sotte solleva un’interessante questione di metodo e non solo di merito. La questione riguarda quella che potremmo chiamare la contrapposizione tra analisi di breve e di lungo periodo. Il breve periodo fa riferimento all’interpretazione dell’Health check come “messa a punto delle riforme del 2003” e molti concordano con il giudizio di Sotte che tale obiettivo “sia stato bene o male raggiunto” in quanto sono stati promossi “dei cambiamenti che, date le premesse e le proposte iniziali, possono pur apparire abbastanza soddisfacenti”. Si tratta di un giudizio ampiamente condiviso che ha il grande pregio di basarsi su di una valutazione realistica del complesso sistema di obiettivi e vincoli che caratterizza il processo decisionale comunitario.
Tutti gli economisti riconoscono che ci troviamo in un mondo di second best in cui non vengono rispettate molte delle ipotesi standard su cui si basa la teoria economica. Adattare i nostri modelli interpretativi a questa realtà rende la discussione assai più concreta e rilevante, ma rischia anche di banalizzare il dibattito, in quanto le conclusioni raggiunte diventano difficilmente refutabili. Da una parte, infatti, le valutazioni teoriche delle inefficienze dell’attuale PAC potrebbero essere considerate irrilevanti dagli attori coinvolti nel dibattito, visto lo scarso realismo delle ipotesi. Se però ci si “sporca le scarpe” con la realtà, si può facilmente arrivare a convincersi che viviamo nel migliore dei mondi possibili, in quanto le inefficienze sarebbero spiegate (se non addirittura giustificate) dai vincoli esistenti: in altre parole, viene riconosciuto che siamo lontani dall’ottimo, ma dobbiamo accontentarci perché non si poteva fare di meglio. Personalmente credo che ciò sia in buona misura vero con riferimento alla conclusione dell’Health check, ma mi preoccupa la difficoltà con cui si potrebbe criticare una tale conclusione.
A chi sostiene che l’esito dell’Health check è insoddisfacente, infatti, si può (troppo) facilmente rispondere che ciò è senz’altro vero in teoria, ma che in pratica solo gli ingenui credono che sarebbe stato possibile fare di più o di meglio. Con un po’ di malizia suggeriamo che forse proprio per evitare tale critica, la schiera degli “insoddisfatti”, a cui credo appartenga Franco Sotte, si rifugia nel lungo periodo discutendo i caratteri della PAC dopo il 2013.
L’orizzonte temporale più lungo rimuove molti dei vincoli “realistici” e permette, per così dire, di disegnare la PAC che vorremmo senza preoccuparsi troppo della verosimiglianza delle conclusioni raggiunte. In questo caso le conclusioni raggiunte sono direttamente verificabili sul piano teorico (quali sono i beni pubblici forniti dal settore primario? quanto valgono le esternalità positive? quali sono i costi?), ma vi è anche il rischio che il dibattito sia tanto appassionante per gli economisti quanto irrilevante per tutti gli altri.
Evidentemente c’è bisogno sia dell’analisi di breve che di lungo periodo, ma nella descrizione che ho fatto ho volutamente estremizzato le caratteristiche dei due approcci per mettere in guardia contro i rischi di una possibile incomunicabilità tra i partecipanti al dibattito. Per evitare tali rischi, da una parte è necessario che le analisi per così dire “congiunturali” facciano uno sforzo per migliorare l’analisi positiva esplicitando i vincoli derivanti dall’assetto istituzionale e gli obiettivi suggeriti da un approccio tipo political economy alla modellizzazione delle funzioni obiettivo dei decisori politici. D’altra parte, le analisi normative di lungo periodo dovrebbero resistere alla tentazione della “pagina bianca” ovvero alla presunzione di poter disegnare le politiche agrarie senza tener conto della storia e della realtà in cui esse devono essere calate. Sviluppare un’analisi economica che sia al tempo stesso rigorosa e rilevante non è facile, ma l’esperienza di Agriregionieuropa dimostra che è senza dubbio possibile.

Margherita Scoppola (Università di Macerata)

Come ci ricorda Franco Sotte nelle ultime righe del suo editoriale, “.. non e’ da oggi che c’e’ consapevolezza in Europa della necessità di nuove soluzioni…” in merito alla politica agricola dell’UE. L’analisi che egli fa sullo stato di salute della PAC (e non della riforma Fischler) e sui fattori che la rendono in prospettiva ingiustificabile, insostenibile ed inefficace è largamente condivisibile e, credo, condivisa da buona parte degli studiosi di politica agraria.
Eppure il dibattito su quale dovrebbe essere la politica agricola dell’Europa dei prossimi anni fino ad oggi ha stentato a decollare, frenato anche dalle resistenze del mondo agricolo che tutt’oggi ha difficoltà a pensare che ci si debba lasciare alle spalle la PAC che tutti conosciamo; quella PAC tuttora ancorata agli obiettivi del Trattato di Roma e dotata di strumenti che, sebbene profondamente modificati - dalla politica dei prezzi, ai pagamenti compensativi della Mac Sharry, fino all’epilogo della riforma Fischler - sono legati però da un unico filo conduttore: assicurare agli agricoltori ancor oggi quel sostegno del reddito, dal punto di vista del livello del sostegno e della sua distribuzione tra territori, aziende e soggetti; un sostegno che continua a premiare lo status di agricoltore in quanto tale, piuttosto che i suoi comportamenti.
Lo stesso dibattito che c’e’ stato in occasione dell’Health check ha mostrato come, anche a livello politico e istituzionale, non sembra esserci stata fino ad ora davvero la consapevolezza “.. della necessità di nuove soluzioni”. Le uniche proposte che si intuiscono riguardano uno spostamento molto più netto di risorse dal primo al secondo pilastro: ma anche questo, più che un indirizzo strategico, appare per ora una parola d’ordine che, data la sua sostanziale ambiguità, trova discreto consenso anche perché legittima agli occhi dell’opinione pubblica, in misura maggiore forse del primo pilastro, la spesa per l’agricoltura.
Rischia tuttavia di rimanere una parola d’ordine e non un indirizzo chiaro di politica economica per l’agricoltura se non si chiarisce cosa si dovrebbe fare con le risorse aggiuntive nel secondo pilastro, considerando che le Regioni hanno già difficoltà a spendere le attuali dotazioni finanziarie e che spesso, anche per questa ragione, nella pratica implementazione delle politiche di sviluppo rurale prevale una logica puramente distributiva.
Per le numerose ragioni citate da Franco Sotte l’attuale PAC, che ipoteca ancora circa il 70% delle spese destinate alle risorse naturali per finanziare il pagamento unico aziendale (il Pua), appare largamente insoddisfacente sotto il profilo della sua efficacia. Il Pua è inefficace nel conseguire i numerosi obiettivi che l’UE ha dichiarato negli ultimi anni di assegnare alla politica agricola: tra gli altri, il sostegno del reddito, la tutela dell’ambiente, la qualità e sicurezza degli alimenti, la competitività dell’agricoltura europea, il benessere degli animali. D’altro canto, e’ piuttosto difficile immaginare un unico strumento in grado di perseguire in maniera efficace, ad esempio, obiettivi sia redistributivi che ambientali; il Pua costituisce perciò una evidente violazione del principio base della politica economica (targeting principle), secondo il quale la soluzione di un problema di politica economica richiede che vi sia un numero di strumenti almeno pari a quello degli obiettivi.
Un ripensamento a 360 gradi della PAC dovrebbe ripartire perciò, in primo luogo, da un chiarimento esplicito degli obiettivi dell’UE in materia di agricoltura. E’ sorprendente notare come, nonostante le diverse e consistenti modifiche apportate nel tempo al Trattato di Roma, non siano stati cambiati gli obiettivi della politica agricola, nonostante molti di questi (quali, ad esempio, l’autosufficienza e l’aumento della produttività) vengano oggi considerati da tutti come superati. Ma non altrettanto si può dire per quanto riguarda il sostegno del reddito: questo obiettivo è ritenuto ancora inviolabile da buona parte del mondo agricolo, nonostante sia nei fatti stato superato dalla avvenuta modernizzazione dell’agricoltura; con l’esclusione di alcune circoscritte aree dell’Unione Europea i redditi agricoli non sono oggi inferiori ai redditi extra-agricoli rurali e, diversamente dai tempi in cui fu scritto il Trattato, i problemi sociali dell’UE non si annidano in maniera peculiare in agricoltura. Inoltre, esistono altre politiche volte ad aggredire il problema dei differenziali di reddito: di tipo inter-personale (le politiche sociali) e inter-territoriale (le politiche europee di coesione). Sulla base di queste (condivisibili) considerazioni si è spesso sostenuto, sulla scia del rapporto Sapir, che se la PAC è una politica redistributiva, allora dovrebbe essere ri-nazionalizzata, ovvero ricondotta nel suo alveo naturale, cioè quello delle politiche sociali nazionali.
L’agricoltura europea di oggi non deve invece continuare ad essere considerata e a farsi considerare come un settore “a parte”, che necessita di intervento pubblico finalizzato al sostegno del reddito dell’agricoltore in quanto tale. L’agricoltura necessita piuttosto di essere reinserita nel progetto più ampio che si è data l’UE e che si snoda intorno ai tre indirizzi strategici: competitività, ambiente ed energia. L’impegno dell’UE su questi tre obiettivi appare cruciale non solo per il futuro economico e politico dell’UE ma anche per l’agricoltura europea. La questione della competitività dell’agricoltura europea e dei suoi legami con il problemi ambientali ed energetici appare largamente sottovalutata nel dibattito sul futuro della PAC. Il punto di partenza per disegnare tale futuro dovrebbe essere una attenta analisi dei fattori che limitano il contributo dell’agricoltura europea ai tre obiettivi chiave che si è data l’Unione.
Per scendere nel concreto, per quanto possibile in questa fase, la nuova PAC dovrebbe perciò ripartire da alcuni punti fermi:

  • la ridefinizione degli obiettivi della PAC nel contesto degli obiettivi generali dell’Unione incentrati sul trinomio competitività-ambiente-energia; ciò implica l’abbandono del tradizionale obiettivo prioritario del sostegno del reddito agricolo in quanto tale;
  • la rimozione graduale, fino all’eliminazione, del Pua;
  • l’individuazione di due (o più) set distinti di politiche a cui assegnare due (o più) obiettivi.

In questa logica si potrebbe pensare a due set di strumenti. Le vecchie politiche del primo pilastro potrebbero essere sostituite da interventi mirati a favore della competitività dell’agricoltura. Come si è già accennato, il disegno di queste politiche dovrebbe scaturire da un’attenta analisi dei fattori che limitano la competitività dell’agricoltura europea. Potrebbero far parte di questo nuovo primo pilastro le politiche per la creazione e la diffusione delle innovazioni in agricoltura, soprattutto quelle volte a risparmiare energia e a rendere l’attività agricola più compatibile con l’ambiente; i programmi di formazione e di assistenza tecnica alle aziende agricole; le politiche volte a rimuovere i vincoli strutturali delle aziende; le politiche per migliorare la qualità dei prodotti agricoli europei; le politiche per la gestione del rischio in agricoltura. Questo set di politiche - alcune delle quali potrebbero avere natura regolamentare - dovrebbe essere disegnato a livello europeo per evitare distorsioni della concorrenza e potrebbe essere finanziato interamente dal bilancio europeo, sebbene con una dotazione decisamente inferiore all’attuale primo pilastro; Un secondo set di politiche potrebbe essere costituito da pagamenti mirati agli agricoltori che offrono beni pubblici e producono esternalità positive (ambiente, paesaggio, tutela del territorio ecc.) commisurati ai costi della produzione di quei beni oppure, ancor meglio, ai benefici sociali da essi generati. Questo genere di politiche, che potrebbero scaturire dal rafforzamento e miglioramento, all’interno delle politiche di sviluppo rurale, degli attuali pagamenti agro-ambientali, possono essere meglio disegnate e gestite a livello europeo laddove gli effetti sociali positivi hanno carattere trans-nazionale; viceversa, dovrebbero essere gestiti a livello locale laddove gli effetti hanno natura locale. All’interno di una ampia griglia definita a livello di Unione Europea, le regioni potrebbero perciò individuare le loro priorità.
Il reinserimento della politica agricola all’interno dei più generali obiettivi dell’UE renderebbe legittima e giustificabile una spesa agricola europea che, sebbene in prospettiva sarà necessariamente ridimensionata, non dovrebbe però subire quei tagli drastici che vengono spesso minacciati nelle sedi in cui si discute sul futuro del bilancio dell’Unione. Affinché però ci sia un cambiamento serio e credibile, è necessario fin da oggi fare lo sforzo di “ripartire da zero” per disegnare il futuro della PAC scordandoci, una volta tanto, del passato.

Riferimenti bibliografici

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  • De Filippis, F. (2009), “L’Health check della PAC: uno sguardo d’insieme” in De Filippis F. (a cura), Il futuro della PAC dopo l’Health check, Quaderni del Gruppo 2013, Edizioni Tellus, Roma.
  • De Filippis F. (a cura), Il futuro della PAC dopo l'Health check, Quaderni del Gruppo 2013, Edizioni Tellus, Roma.
  • Frascarelli A. (2007), Il futuro della PAC: sostegno dei redditi e politica ambientale, Agriregionieuropa, Anno 3, n. 11 [link]
  • Sotte F. (2008), “Chiuso l’Health check, apriamo una riflessione sulla PAC dopo il 2013”, Agriregionieuropa, Anno 4, n. 15 [link]
  • Swinnen J. (a cura di) (2008), The Perfect Storm - The Political Economy of the Fischler Reforms of the Common Agricultural Policy, Centre for European Policy Studies, Brussels.
  • Wright B. D. e Gardner B. L. (1995), Reforming Agricultural Commodity Policy. AEI Studies in Agricultural Policy.
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