Agro-ecologia e politiche agro-ambientali

Agro-ecologia e politiche agro-ambientali
a Università Politecnica delle Marche (UNIVPM), Dipartimento di Scienze Ambientali e delle Produzioni Vegetali

Introduzione

Le politiche agro-ambientali stanno sempre più condizionando lo sviluppo dell’agricoltura europea: esse rappresentano l’espressione formale della volontà popolare (per lo più inespressa e quindi frutto di una interpretazione dei governi membri) di sviluppare sistemi colturali, zootecnici e forestali che producano alimenti di qualità, beni e servizi per i consumatori e siano compatibili con la tutela delle risorse ambientali, pur consentendo un’adeguata remunerazione per gli operatori agricoli.
La storia delle misure agro-ambientali in Europa è breve. Le prime normative specifiche in materia risalgono ai primi anni ’90, quando la CEE, sotto la spinta del movimento ambientalista dopo le crisi dell’inquinamento dei corpi idrici da fitofarmaci e fertilizzanti degli anni ’80, codificò il regolamento 2092/91 sull’agricoltura biologica e, subito dopo, le misure di accompagnamento della PAC per incentivare l’adozione volontaria di pratiche agricole a basso impatto ambientale (reg. 2078/92). La fase successiva ha avuto un’ulteriore impulso con l’integrazione dei principi di eco-condizionalità nella PAC, nonché un rilancio di politiche mirate alla multifunzionalità in un contesto di sviluppo rurale e di sostanziale ri-orientamento delle funzioni dell’agricoltura nella gestione territoriale.
Oltre che da normative specifiche del settore, i sistemi agricoli e forestali sono sempre più condizionati anche da altre politiche sull’ambiente e sulla gestione del territorio (es. direttiva quadro sull’acqua, 2000/60/CE), che spesso vengono percepite e attuate come pool di vincoli da far rispettare agli agricoltori, nonostante gli espliciti riferimenti normativi sul coinvolgimento e la partecipazione pubblica alle decisioni.
Lo sviluppo delle politiche agro-ambientali all’inizio degli anni ’90 ha segnato in maniera significativa l’orientamento della ricerca scientifica su temi agronomici, che sino a pochi anni prima aveva concentrato le risorse verso la produttività e le agro-tecnologie innovative (es. agro-biotecnologie), nell’intento di contribuire a svincolare le aziende agricole dall’atavica dipendenza dalle avversità biotiche ed abiotiche. La profonda revisione degli obiettivi della ricerca agronomica nell’ultimo ventennio del secolo scorso è testimoniato dal cambiamento di titoli ed obiettivi dei principali progetti finalizzati di ricerca in agricoltura a scala nazionale: dal progetto “IPRA” (Incremento Produttività Risorse Agricole) del Cnr, avviato nella prima metà degli anni ’80, si è passati al progetto RAISA (Ricerche Avanzate per l’Innovazione del Sistema Agricolo [link]), avviato sempre dal Cnr nel 1989 e suddiviso in 4 sottoprogetti, di cui uno su “Sistemi agricoli ed assetto ambientale” e infine al progetto PANDA, del Ministero delle Politiche Agricole (Produzione Agricola nella Difesa dell’Ambiente [link]), che si è svolto negli anni ’90.
Obiettivo di questo approfondimento è dare un contributo alla riflessione sulla co-evoluzione di obiettivi ed approcci della ricerca agronomica con le nuove missioni assegnate all’agricoltura in Europa. La riflessione prende spunto dall’analisi di un caso di studio sull’attuazione delle politiche agro-ambientali per la tutela delle risorse idriche dall’inquinamento da nitrati di origine agricola e si sviluppa focalizzando l’attenzione sul ruolo e l’incontro tra domanda e offerta di conoscenza scientifica agronomica a supporto dello sviluppo rurale sostenibile.

Basi scientifiche delle politiche agro-ambientali

L’attuazione delle politiche comunitarie in campo agricolo è una fase cruciale dalla quale dipende la corrispondenza tra obiettivi dichiarati e risultati effettivamente conseguiti. Non è difficile fare esempi di incongruenze tra obiettivi delle politiche, assunti più o meno implicite e stato dell’arte delle conoscenze scientifiche. Un esempio per tutti sono le norme sull’agricoltura biologica. Si basano sull’assunto che le sostanze chimiche di origine naturale siano più salubri e sicure per l’uomo e l’ambiente rispetto a quelle di sintesi. Fitofarmaci e fertilizzanti di sintesi sono perciò esclusi in agricoltura biologica, anche se è scientificamente dimostrato che l’assunto non è sempre valido, perché vi sono sostanze chimiche di sintesi meno inquinanti e/o velenose di quelle naturali.
Il successo con il quale le normative sull’agricoltura biologica si sono affermate a scala mondiale non è quindi sempre giustificato da evidenze scientifiche in campo agronomico: anzi, la ricerca scientifica agronomica sull’agricoltura biologica si è sviluppata, almeno in Italia, soprattutto dopo l’attuazione del reg. CEE 2092/91, che ne codificava i termini e l’ambito di applicazione. In questo caso, la comunità scientifica agronomica, in particolare quella italiana, ha fallito la missione di supportare queste politiche agricole e ha dovuto assumere, ex post, il ruolo di supporto scientifico all’innovazione nell’ambito dei vincoli imposti dalla normativa. Questa esperienza dovrebbe insegnare che nel campo scientifico a supporto delle politiche agro-ambientali, è opportuno integrare una pluralità di conoscenze e punti di vista.
Esistono numerosi altri esempi di politiche e normative in campo agro-ambientale fondate su assunti scientificamente non validi. L’esempio che segue illustra che questo aspetto è spesso alla base delle asimmetrie riscontrate in Europa tra obiettivi generali delle politiche agro-ambientali, in genere ampiamente condivise, e risultati effettivamente conseguiti e verificabili, che sono invece spesso fonte di conflitti e distorsioni.

Il caso dei “nitrati”

Nel 1993, come effetto dell’attuazione della direttiva CEE 676/91, nota come “direttiva nitrati”, 50 comuni delle Marche furono dichiarati in “emergenza nitrati” per aver superato la soglia di 50 mg L-1 di nitrati nell’acqua potabile distribuita dalla rete pubblica. La primaria fonte di approvvigionamento idrico potabile di questi comuni erano i pozzi ubicati nei fondovalle, dove prevalgono sistemi colturali ad elevato livello di intensificazione, che furono perciò identificati come la principale fonte di inquinamento diffuso. Dopo alcuni mesi di crisi, durante i quali l’acqua del rubinetto di casa non poteva essere utilizzata né per bere né per cucinare, i sindaci corsero ai ripari attraverso l’acquisto di costosi impianti di denitrificazione, la miscelazione di acque con diverso grado di inquinamento e, successivamente, attraverso nuovi allacciamenti alle sorgenti appenniniche, ancora incontaminate. Questa soluzione permise di superare temporaneamente la crisi, che si sta riproponendo in questi tempi con la fase di piena attuazione della direttiva nitrati e della direttiva quadro sull’acqua.
Nel 1996, la Regione Marche adottò una specifica azione del reg. 2078/92 (D3) che prevedeva incentivi economici per gli agricoltori a supporto della conversione obbligatoria a scala territoriale (minimo 1000 ha contigui) da sistemi colturali convenzionali a nuovi sistemi a basso impatto ambientale o biologici, definiti da appositi disciplinari. Le misure adottate erano basate sui seguenti assunti, più o meno esplicitati dalla normativa:

  1. la principale fonte di inquinamento delle acque è rappresentata dall’impiego eccessivo di sostanze chimiche di sintesi, in particolare concimi e fitofarmaci;
  2. le pratiche definite dai disciplinari di produzione dell’agricoltura biologica e a basso impatto ambientale permettono un significativo miglioramento della qualità e salubrità dei prodotti e della eco-compatibilità dei sistemi colturali e di allevamento;
  3. le scelte operate dagli agricoltori sui sistemi colturali sono influenzate principalmente da motivazioni economiche;
  4. la riduzione dell’impiego di prodotti chimici prescritta dai disciplinari di produzione a basso impatto ambientale o biologici determina una riduzione delle produzioni o un aumento dei costi rispetto alle tecniche convenzionali;
  5. la conversione delle pratiche agricole convenzionali a pratiche più rispettose dell’ambiente può essere ottenuta attraverso strumenti di incentivazione in cambio della sottoscrizione di rigidi e vincolanti disciplinari di produzione.

Seguendo questi assunti, l’azione D3 fu adottata obbligatoriamente attraverso un’ordinanza del Sindaco da sette comuni delle Marche, per un quinquennio tra il 1996 e il 2002. Analogamente a quanto avviene ancora oggi con le misure agro-ambientali del Piano di Sviluppo Rurale (reg. 1257/99), essa si basò sull’erogazione agli agricoltori di incentivi a fronte dell’imposizione di vincoli sulla tecnica colturale, rappresentati sostanzialmente dalla prescrizione di dosi massime di concimi e fitofarmaci e dalla limitazione della profondità di lavorazione del terreno. I disciplinari furono negoziati formalmente tra amministrazione regionale, commissione europea ed organizzazioni professionali regionali, ma informalmente anche con le principali organizzazioni ed associazioni di produttori a scala locale. I fondamenti scientifici dei disciplinari si basarono sulla interpretazione “lineare” di conoscenze agronomiche “da manuale” (la cosiddetta “textbook science”), ma non adeguatamente calate nelle specifiche situazioni locali.

Agro-ecologia e nitrati

Contemporaneamente all’attuazione della misura D3 in due comuni delle “terre del vino Verdicchio” (Serra de’ Conti e Montecarotto), nella collina interna marchigiana, l’Agenzia di Servizi per lo Sviluppo Agroalimentare nelle Marche (ASSAM), con i ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche avviarono il monitoraggio dei sistemi colturali e delle acque di due sottobacini del fiume Misa, con l’obiettivo di analizzare scientificamente le relazioni tra pratiche agricole e dinamica della concentrazione di nitrati, fosforo solubile ed erosione del suolo nelle acque superficiali (Roggero e Toderi, 2002). Il monitoraggio fu impostato per studiare le dinamiche dei processi biologici, fisici e chimici che determinavano le connessioni occulte tra pratiche agricole e inquinamento da nitrati nelle acque, al fine di identificare scelte tecniche eco-compatibili nello specifico contesto ambientale considerato. La ricerca fu l’occasione per verificare a scala di bacino i risultati sino ad allora conseguiti nell’ambito di sperimentazioni condotte a scala parcellare e di analizzare a fondo le trasformazioni delle pratiche agricole indotte dall’attuazione delle misure agro-ambientali.
I risultati sperimentali indicarono che l’inquinamento da nitrati delle acque superficiali era legato soprattutto al fatto che i sistemi colturali più diffusi erano caratterizzati da un lungo periodo, in autunno e inverno, durante il quale si verificano contemporaneamente i principali fattori di rischio di inquinamento: surplus idrico nel suolo e alta concentrazione di nitrati per decomposizione naturale della sostanza organica, favorita anche dall’aerazione del terreno indotta dalle lavorazioni estive e dall’assenza di copertura vegetale su gran parte dei seminativi.
L’inquinamento delle acque da nitrati fu quindi riconosciuto come una proprietà emergente di un complesso sistema di vincoli ecologici (clima e natura fisica del terreno che impongono l’esecuzione delle lavorazioni principali in estate, in largo anticipo rispetto alla semina delle colture primaverili-estive e capacità di immobilizzare efficacemente i nitrati delle colture più diffuse, come il frumento, solo a partire dalla primavera) e socio-economici (scelta colturale legata al contesto del mercato, delle politiche agricole e delle tecnologie disponibili), difficilmente controllabili dai singoli agricoltori.
La situazione, ricorrente in gran parte dei terreni arabili della regione, era da ricondurre fondamentalmente alla scelta dell’avvicendamento colturale, più che alla sola concimazione. Per migliorare la situazione, sarebbe stato quindi necessario un radicale cambiamento degli avvicendamenti colturali, che in quel periodo erano ancora fortemente condizionati dal regime di incentivazione della PAC.
L’analisi delle pratiche agricole e della resa delle colture nei due sottobacini rivelò che l’adozione dei disciplinari prescritti dalle misure agro-ambientali non aveva determinato significative riduzioni di produzione delle colture, come conseguenza dell’aumento di efficienza d’uso dei fertilizzanti, di una più accurata scelta dell’epoca di somministrazione e della modifica della pratica consolidata e diffusa prima dell’adozione dei disciplinari, di far uso di dosi super-ottimali di concime azotato in autunno, quando la coltura non può ancora assorbirlo.
In definitiva, la ricerca mise in evidenza che molti degli assunti su cui implicitamente si basavano le misure agro-ambientali non erano validi:

  1. l’inquinamento da nitrati nel contesto ambientale considerato era legato non solo alla concimazione ma anche al suolo nudo nel periodo di surplus idrico;
  2. la riduzione delle dosi di concime prescritta dai disciplinari non era sufficiente da sola a ridurre l’inquinamento entro limiti accettabili;
  3. i fattori che condizionano le pratiche agricole non sono prevalentemente di natura economica, ma comprendono vincoli ecologici e del contesto normativo e di mercato, non controllabili dagli agricoltori;
  4. l’attesa relazione lineare tra dosi di azoto e produttività delle colture non si era verificata nella gran parte dei casi;
  5. gli incentivi previsti, pur se vicini ai massimi ammessi dalla normativa, non erano stati sufficienti ad indurre il radicale cambiamento dei sistemi colturali che sarebbe stato necessario per ridurre significativamente l’inquinamento delle acque.

Il monitoraggio rivelò anche che l’attuazione delle misure agro-ambientali aveva contribuito a riequilibrare il bilancio dell’azoto dei sistemi colturali più diffusi nella fascia collinare della regione e ad aumentare la consapevolezza degli agricoltori relativamente all’impiego di alcune tecniche colturali “consolidate”, rivelatesi per lo più inutili, quando non dannose per l’ambiente.
L’approccio scelto per la ricerca, a scala di bacino, si rivelò efficace nel tenere in considerazione aspetti normalmente ignorati dalla ricerca agronomica sperimentale a scala parcellare, quali la distribuzione dei sistemi colturali nello spazio, i ruoli delle fasce vegetate di bordo campo e l’analisi dei fattori di contesto che condizionano le pratiche agricole, che spesso sono sostanzialmente differenti rispetto alle tecniche agronomiche su cui si fonda la “buona pratica”.

“Trasferimento” delle conoscenze agro-ecologiche

Le evidenze scientifiche sulla natura del problema furono illustrate in occasione di un convegno regionale a Montecarotto (uno dei sette comuni che aveva aderito alla misura D3), nel luglio 2001. Al convegno parteciparono amministratori, tecnici, ricercatori, politici e agricoltori. I risultati furono interpretati in maniera differente dai diversi partecipanti. Amministratori, tecnici e politici, apprezzarono il messaggio di fondo dei ricercatori di creare un nuovo spazio di interazione tra ricerca, assistenza tecnica ed Enti strumentali della regione interessati al problema (es. ASSAM, Autorità di Bacino, ARPAM ecc.), ma l’iniziativa, dopo un paio di riunioni, si arenò per l’assenza di finanziamenti specifici. Gli agricoltori furono poco coinvolti nel convegno, si sentirono accusati di essere causa dell’inquinamento e di essere in certa parte responsabili del fatto che le misure non avevano pienamente sortito i risultati attesi.
In quel periodo fu avviata una nuova ricerca, il progetto “Slim” http://slim.open.ac.uk/, nell’ambito della quale il problema nitrati nella collina marchigiana divenne un caso di studio europeo. Il progetto aveva l’obiettivo di studiare nuovi approcci interattivi per supportare la gestione integrata e l’uso sostenibile dell’acqua a scala di bacino imbrifero. In particolare, “Slim” era focalizzato sull’apprendimento sociale (social learning), un processo interattivo che, attraverso l’identificazione e il coinvolgimento di stakeholder e l’uso di metodi partecipativi, contribuisse al miglioramento di situazioni complesse di conflitto, a complemento o come alternativa a vincoli, regolamenti, incentivazioni e politiche fiscali (SLIM, 2004).
Al progetto parteciparono ricercatori con competenze molto diversificate (sociologia, scienze della comunicazione, geografia, agronomia, politica agraria) con i quali furono progettate e realizzate numerose attività partecipative insieme ad agricoltori, amministratori, parti sociali, funzionari e cittadini dei comuni di Serra de’ Conti e Montecarotto. In queste occasioni, i ricercatori assumevano a seconda dei casi ruoli diversi: osservatori quando raccoglievano dati sulle colture e sull’acqua, facilitatori/co-ricercatori durante le sessioni partecipative, attori quando con le attività di monitoraggio sistematico delle pratiche agricole influenzavano direttamente o indirettamente il comportamento degli agricoltori (Arzeni et al., 2004; Gibbon et al., 2004).
La ricerca aprì nuove prospettive per il ruolo dell’agro-ecologia a supporto delle politiche agro-ambientali. L’esperienza maturata con il caso di studio nitrati sino al 2001 confermava quanto avvenuto con l’attuazione delle misure agro-ambientali in altre regioni d’Europa, cioè una serie di sostanziali asimmetrie tra obiettivi e risultati effettivamente conseguiti con le misure agro-ambientali.
Il punto di partenza del progetto Slim fu quello di prendere atto, attraverso un’analisi degli stakeholder (Jiggins et al., 2004), del sostanziale fallimento del modello convenzionale del “trasferimento lineare delle conoscenze”, basato sull’assunto che l’identificazione della natura dei problemi sia appannaggio dei ricercatori, che producono nuove conoscenze scientifiche e le trasferiscono alle figure intermedie di interfaccia (es. i servizi di sviluppo agricolo, le organizzazioni professionali, i tecnici ecc.) le quali, attraverso processi per lo più “lineari” e unidirezionali, le volgarizzano per renderle accessibili agli operatori agricoli che cambiano pratiche agricole e quindi risolvono il problema. Un modello analogo è di fatto adottato nella traduzione delle conoscenze scientifiche in politiche agricole o nelle strategie di attuazione delle politiche a scala locale.
Questo tipo di modello lineare ha dimostrato efficacia per la soluzione di problemi tecnici “semplici” (es. incremento della produzione delle colture) attraverso l’introduzione di nuove tecnologie (es. uso di fertilizzanti e fitofarmaci), per i quali il confine del sistema di riferimento era delimitato dai bordi del campo coltivato e da pochi cm di terreno coltivato.
Nel caso dell’inquinamento diffuso delle acque da nitrati, il sistema di riferimento è molto più complesso perché considera le relazioni tra le pratiche agricole applicate al campo e le risorse ambientali dell’agroecosistema, i processi sociali, il background storico-culturale locale e il contesto delle istituzioni e delle politiche che condizionano il comportamento delle persone che gestiscono l’agricoltura. Le conoscenze scientifiche sui processi biologici, fisici e chimici che controllano il movimento degli inquinanti, pur nei limiti dello stato dell’arte, sono indispensabili per comprendere come migliorare la situazione, ma non sono necessariamente sufficienti ad indurre un cambiamento delle pratiche agricole. Le pratiche agricole possono cambiare nella direzione di una maggiore eco-compatibilità se la natura del problema viene condivisa tra tutte le figure, istituzionali e non, coinvolte nel sistema al quale si fa riferimento e se i diretti interessati (in questo caso gli agricoltori) capiscono e/o “toccano con mano” quali possono essere le conseguenze di certe pratiche apparentemente innocue o considerate addirittura “buone”, come l’aratura di un campo o la nutrizione e cura delle piante.
Secondo questa prospettiva di analisi, si pongono nuovi interrogativi relativamente al ruolo della ricerca scientifica agro-ecologica a supporto del miglioramento delle complesse situazioni di degrado ambientale di origine agricola, per esempio:

  • quale scala di indagine ed approcci sono più adatti per la sperimentazione in campo?
  • che valore attribuire alla ricerca monodisciplinare e specialistica, che dal punto di vista scientifico, ancora oggi, garantisce i più alti livelli di qualità editoriale in quanto consente maggiori gradi di approfondimento di tipo riduzionistico?
  • che spazio possono avere le conoscenze locali nella definizione degli obiettivi delle ricerche e nella attuazione delle politiche agro-ambientali?
  • come tener conto, nella definizione delle misure agro-ambientali, del problema della sito-specificità dei problemi e delle soluzioni, sia in termini bio-fisici che sociali?
  • quali modelli alternativi di ricerca scientifica sono più efficaci per supportare le normative agro-ambientali e le pratiche agricole?

Nuovi modelli di “buona prassi” sull’agro-ambiente

Per poter rispondere ai quesiti appena formulati, è utile schematizzare i nuovi assunti che emergono dall’esperienza del caso nitrati:

  • i cambiamenti desiderabili per la soluzione di problemi agro-ambientali non hanno una natura puramente tecnica, ma possono emergere dalla migliore comprensione a diversi livelli (ricerca scientifica, assistenza tecnica, politica, pratica) della natura fisica, biologica e sociale dei problemi, che assume contorni e sfumature differenti a seconda della prospettiva dalla quale si attribuiscono i valori ai diversi elementi del sistema.
  • Le questioni agro-ambientali sono caratterizzate da complesse interdipendenze tra processi bio-fisici e sociali, che generano incertezze sulle relazioni dinamiche tra pratiche agricole e ambiente e controversie sulle soluzioni più appropriate da adottare.
  • In questo contesto, le conoscenze scientifiche dovrebbero essere considerate non tanto come riferimento assoluto per la definizione di soluzioni tecniche, ma come valore aggiunto da integrare in processi partecipativi di condivisione delle questioni, degli obiettivi da conseguire e delle strategie di azione concertata (Slim, 2004).

Il progetto Slim ha dimostrato l’efficacia dell’applicazione di un modello di analisi a numerosi casi di studio in Europa, accomunati da complesse problematiche di gestione sostenibile dell’acqua a scala di bacino. Secondo questo modello, l’identificazione e il coinvolgimento dei portatori di interesse costituisce la prima fase fondamentale nella definizione degli obiettivi delle ricerche agro-ecologiche, della scala di indagine, del livello di approfondimento necessario a supportare il cambiamento e della condivisione dei risultati conseguiti e relative implicazioni pratiche.
Il modello è basato sulle interazioni dei ricercatori con altri portatori di interesse, implica l’investimento in strumenti di facilitazione del dialogo e l’istituzionalizzazione di nuove prassi capaci di valorizzare le capacità e le intelligenze dei soggetti interessati alle politiche agro-ambientali.
I ricercatori hanno preso atto che le assunzioni implicite nei disciplinari delle misure agro-ambientali non sono sempre valide, che questo in certa misura si può applicare in larga misura alla “textbook science” e ai modelli informatizzati “DSS” (Decision Support Sytems) (Meinke et al., 2001), risultati efficaci in ambiti tecnologici, e che ciò ostacola anche la verifica dell’efficacia delle politiche e distorce la traduzione in “buona pratica” delle conoscenze scientifiche sull’impatto ambientale dell’agricoltura.
L’evoluzione degli obiettivi e del sistema di riferimento delle politiche agricole e ambientali, che ha subito una forte accelerazione nell’ultimo ventennio, ha importanti implicazioni sugli approcci di ricerca scientifica in ambito agronomico, sul modo di costruire ed attuare le politiche agricole e ambientali e sulle modalità di distribuzione di risorse pubbliche al sistema agricolo.
A livello di ricerca scientifica, è necessario investire maggiormente in approcci interdisciplinari, intesi come integrazione e sinergie frutto del dialogo scientifico tra ricercatori con diverso background culturale e diverse prospettive di analisi e non come semplice somma delle discipline (Bouma, 1997). Le barriere tra ricercatori di diverse discipline ancora oggi rappresentano un limite per la ricerca di soluzioni ai complessi problemi agro-ambientali. Occorre rivedere i criteri per la valutazione della qualità della produzione scientifica dei ricercatori, che oggi favoriscono di fatto approcci riduzionistici e monodisciplinari [link].
L’esperienza Slim ha dimostrato che per supportare efficacemente il superamento di gravi problemi agro-ambientali, non solo è fondamentale l’interazione tra discipline affini all’agronomia (ecologia, biologia vegetale ed animale, pedologia, economia agraria ecc.) ma anche con scienze apparentemente distanti dalle scienze agrarie, come le scienze sociali e della comunicazione. Il valore aggiunto di queste interazioni è anche quello di favorire un atteggiamento più riflessivo dei ricercatori sulla ineluttabile componente di soggettività dei risultati scientifici e della loro traduzione in norme e regolamenti e sulla conseguente importanza della qualità del dialogo nelle relazioni sociali tra ricercatori, amministratori e stakeholder, che dovrebbero idealmente portare alla condivisione di “cosa” e “come” migliorare. A questo riguardo, attraverso il progetto Slim è stata anche verificata l’efficacia di strumenti interattivi per la facilitazione del dialogo, come il GIS pubblico partecipativo, attraverso i quali è stato possibile condividere complesse conoscenze scientifiche anche con non esperti (Gibbon et al., 2004).
È necessario anche prendere atto del fatto che lo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche sull’impatto ambientale delle pratiche agricole è ben lontano dall’aver prodotto modelli deterministici capaci di prevedere in maniera affidabile “cosa succede se…” in diversi contesti locali. Ciò è limitato anche dal fatto che nella gran parte delle regioni italiane non è ancora disponibile una base informativa georeferenziata su suoli, clima e pratiche agricole, alla quale far riferimento per l’implementazione di modelli matematici distribuiti a scala territoriale, che potrebbero facilitare l’interpretazione quantitativa dell’impatto del clima e delle pratiche agricole sulle risorse naturali (es. [link]) e permettere l’interazione sinergica “in rete” tra prospettive di analisi complementari.
L’esperienza acquisita ha anche messo in evidenza, però, che per la complessa natura dei processi che controllano l’impatto ambientale delle pratiche agricole, sarebbe utopistico ipotizzare il superamento dei problemi agro-ambientali attraverso il solo supporto offerto dalla simulazione matematica dei processi agro-ecologici.
A livello istituzionale, secondo questo modello, è necessario ridefinire le modalità attraverso cui le politiche agro-ambientali sono ideate, progettate, attuate e valutate. Gli ingredienti per lo sviluppo di nuove procedure più efficaci sono trasparenza, partecipazione ed interazione facilitata tra i diversi soggetti coinvolti. Ciò vale in particolare per la delicata fase di attuazione delle politiche, durante la quale si verificano le asimmetrie più evidenti tra obiettivi dichiarati dalle politiche, spesso ampiamente condivisi, criteri di distribuzione delle risorse e risultati effettivamente verificabili.
Le implicazioni pratiche di queste considerazioni riguardano, per esempio, il radicale cambiamento degli investimenti, che potrebbero essere più mirati alla creazione ed istituzionalizzazione di nuovi spazi sociali di interazione facilitata tra tecnici, politici e ricercatori, per la quale sono richieste figure professionali (es. i facilitatori) e procedure (es. networking, lavoro di gruppo, workshop interattivi, gruppi focus) oggi praticamente assenti dalle prassi delle istituzioni pubbliche e invece valorizzati con successo nelle strategie di gestione delle risorse umane delle grandi multinazionali. Questo nuovo modo di lavorare, se gestito professionalmente e con attenzione alla qualità dei processi, costituirebbe l’istituzionalizzazione di processi di social learning a diversi livelli e renderebbe naturale l’incontro tra domanda e offerta di conoscenze scientifiche in diversi campi disciplinari a supporto di produzioni agricole sostenibili.

Considerazioni conclusive

Il caso “nitrati” nella collina marchigiana insegna che in tema di agro-ambiente la qualità delle conoscenze scientifiche sui processi bio-fisici sito-specifici è indispensabile, pur se non necessariamente sufficiente per il superamento delle situazioni di crisi. Le soluzioni prospettate attraverso i disciplinari a basso impatto ambientale sono basate su assunti non sempre scientificamente verificabili, come dimostrato anche in altre situazioni europee (es. Ulèm e Kalisky, 2005) e gli approcci scelti per l’attuazione delle misure agro-ambientali si fondano su modelli lineari di trasferimento delle conoscenze non adeguati per affrontare problemi complessi.
La direttiva nitrati e la nuova PAC eco-condizionata fanno costante riferimento al concetto di “buona pratica agricola”, come se il significato di queste tre parole fosse ormai chiaro per tutte le situazioni. È utile a questo proposito riflettere sul ruolo e sugli approcci della ricerca agro-ecologica a supporto delle politiche agro-ambientali.
I modelli lineari possono dare risultati coerenti con gli obiettivi in processi finalizzati al miglioramento della produttività attraverso innovazioni tecnologiche brevettabili, ma per lo sviluppo rurale e l’agricoltura sostenibile occorre far riferimento a modelli non lineari, partecipativi, interattivi e iterativi, nell’ambito dei quali la ricerca scientifica non si limita necessariamente alla mera osservazione di processi ecologici, ma può integrarsi in attività attraverso le quali diversi stakeholder, ricercatori inclusi, imparano insieme ad individuare percorsi condivisi di azione concertata. Si pone a questo riguardo una questione di fiducia, probabilmente da ricostruire, tra le diverse componenti della “filiera della conoscenza scientifica” sull’agro-ecologia, che non dovrebbe essere un tema riservato solo agli “addetti ai lavori”, perché riguarda in ultima analisi anche i comportamenti quotidiani dei consumatori e quindi di tutti i cittadini. Questo implica, per esempio, la necessità di prestare maggiore attenzione, su temi agro-ecologici, alla qualità dei processi di condivisione della conoscenza scientifica con gli stakeholder, in accordo con una prospettiva che considera lo sviluppo rurale sostenibile come una proprietà che emerge dalla valorizzazione di una pluralità di conoscenze (es. [link]).
La riflessione si conclude evidenziando la necessità di interrompere il processo in atto, di progressivo disinvestimento di risorse nella ricerca pubblica sull’agro-ecologia, basato sulla convinzione che le sole agro-tecnologie, che tanto hanno contribuito alla crescita del benessere economico dei paesi “avanzati”, possano risolvere anche la questione della sostenibilità ambientale dell’agricoltura. È improbabile che su temi così complessi come quello della gestione integrata delle risorse primarie, la ricerca scientifica finalizzata ai brevetti commerciali possa da sola alimentare lo sviluppo sostenibile.

Riferimenti bibliografici

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  • Gibbon, D., Powell, N., Roggero, P. and Toderi, M., (2004) Dialogical tools: a methodological platform for facilitating and monitoring social learning processes, SLIM (Social Learning for Integrated Management and Sustainable Use of Water at Catchment Scale) Case Study Monograph 5. Disponibile su: [link].
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  • Ulèm B.M., Kalisky, T., 2005. Water erosion and phosphorus problems in an agricultural catchment - Need for natural research for implementation of the EU Water Framework Directive. Environmental Science and Policy, 8, 477-484.
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